Il cielo è ancora più blu
“Ai miei figli cosa dirò
Benvenuti nel Truman Show”
Sono giorni che ascolto Ghali ininterrottamente, penso di essere in buona compagnia. Ho comprato un biglietto per un suo concerto, in preda a un entusiasmo che non avevo mai provato per un artista italiano vivente e mio - quasi - coetaneo. Ho versato lacrime su Bayna, e su brani che non avevo mai ascoltato o che avevo fatto in tempo a dimenticare, e che ho messo insieme in una playlist che riascolto in loop.
L’ho intitolata Il cielo è ancora più blu, sia per citare un verso della sua ultima canzone, sia per posizionarla in qualche modo nella storia della musica italiana. Mi fa pensare alla canzone di Rino Gaetano, e a un senso di progressivo movimento in avanti, come a dire. Eravamo messi male allora, siamo messi male adesso, ma almeno l’arte ci sta facendo fare un passettino più in là. O forse più su, un filino più vicini al cielo, a cercare di capirci, tra una bomba e l’altra.
In questo momento in cui mi trovo dall’altra parte del mondo rispetto a Baggio e a Sanremo, in un luogo - East Vancouver - dove il biglietto d’ingresso per i non caucasici è troppo spesso l’assimilazione culturale e linguistica, ascoltare queste canzoni in loop questa settimana mi ha dato una forza che cercavo dal momento del mio atterraggio qui, la sera di Natale. Parlare la propria lingua, farlo con orgoglio, mescolarla a quella che sarà la lingua che si finirà a parlare più spesso di quella madre. Usarla per scrivere, scriverci una storia sopra.
Quell’esibizione e quello che Ghali ha fatto su quel palco dopo aver cantato mi hanno dato la forza di affrontare alcune situazioni e conversazioni difficili con nordamericani, ma in primis e soprattutto con me stessa: valorizzare il senso di progressione senza sostituirlo con la tentazione di cancellare quello che si è stati, le proprie origini. Chi ci ha messo al mondo e dove vogliamo andare fanno parte della stessa storia, e questa storia non ci deve necessariamente rendere sempre felici, anzi, ma negarla è una strada sicura verso l’insicurezza, l’alienazione, e la dissociazione. Se divento solo qualcosa di nuovo ad ogni cambio di stagione, la prima a perdere sono io.
Sono diversi anni che penso alla psicologia fuffa di Instagram e al modo in cui ha targettizzato soprattutto le persone che si identificano nel genere femminile. Quella che, per intenderci, ha spianato la strada a psicologhe e coach irrimediabilmente conservatrici come The Holistic Psychologist, che mettono sempre al centro di tutto l’individuo, e negano i problemi sistemici e l’impatto che possono avere sulla salute fisica e mentale di chi ne subisce gli effetti e l’abuso. Sono psicologhe spesso molto bionde, o che comunque bionde a un certo punto lo diventano.
È quel biondo Truman Show, quel biondo del personaggio interpretato da Laura Linney mentre pubblicizza un barattolo di caffè davanti al protagonista che, attonito, cerca di farla rinsavire senza successo. È il biondo Chiara Ferragni, il biondo Hillary Clinton, il biondo Barbie, il biondo Taylor Swift, il biondo Giorgia Meloni, il biondo Marine Le Pen. Ha a che fare col potere, ha a che fare col privilegio, ha a che fare con il desiderio di proiettare un senso di candore, che è one step away dalla purezza, che è one step away dal suprematism bianco. Mi preme sottolineare che non ho niente contro il colore in sé, che anzi spesso apprezzo molto, ma con il significato che gli viene attribuito da un punto di vista culturale e mediatico.
Non mi sfugge l’ironia di scrivere queste parole da persona bionda che spesso viene scambiata per non italiana - a questa considerazione, “wow, you don’t look Italian at all”, spesso seguono commenti razzisti sugli italiani che vengono fatti da persone, anche amiche, che danno per scontato che siccome io non incarno il prototipo di italiano medio che loro hanno in testa, allora riderò fragorosamente a battute che hanno quasi sempre a che fare con l’ignoranza e la povertà. In poche parole, con il grande taboo del Nord America: la classe sociale.
La classe e la working class in particolare sono talmente tanto un taboo qui che per americani e canadesi deve sempre associata almeno a qualcos’altro, qualche altra questione sistemica, oppure a un’intera popolazione o comunità. Lo è anche per me, o almeno lo è stata. Mi è rimasto molto impresso un momento in cui, a un corso di aggiornamento per giornalisti che tenni diversi anni fa, qualcuno mi chiese, quasi interrompendomi: ma lei è figlia di giornalisti? Mi spiegarono che si trattava di un complimento per le mia capacità di esprimermi e spiegare argomenti anche molto complessi in modo chiaro e conciso. Dissi solo, no, con un sorriso. Non dissi, no, mia madre è infermiera, mio padre è camionista, mia nonna è operaia.
“Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?
Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità
Abbiamo perso di vista quella collettiva
L'abbiamo frammentata
Noi, loro e gli altri
Noi, loro e gli altri
In quale ennesima gabbia di cristallo ci siamo infilat* se per sentir pronunciare la parola genocidio in diretta tv abbiamo dovuto aspettare quattro mesi dall’inizio dei bombardamenti? Qual è il prezzo che pensiamo di finire per pagare a mescolare nuovamente immagini e linguaggio?
Tutti questi anni di Instagram ci hanno regalato un raffinatissimo senso estetico che ci sognavamo fino a pochi anni fa, che sono convinta abbia a che fare con tante cose positive, tra cui la risurrezione della pellicola; la creazione di corridoi virtuali tra i nostri rispettivi spazi intimi; la creazione di un linguaggio comune che non è solo l’inglese, ma è un vero e proprio polmone con cui respiriamo e discutiamo tutti assieme nello stesso momento, anche se tendiamo a saper affrontare un argomento per volta; un algoritmo a cui possiamo dare direzioni bellissime e orrende a seconda delle situazioni e delle bolle in cui ci troviamo. Non possiamo e non dobbiamo tornare in un incubo di botta e risposta edgy su X che fino all’altro ieri era Twitter. Non possiamo e non dobbiamo tornare a condividere 100 foto a serata su Facebook. Va benissimo così.
Ma qualcosa sta comunque andando storto: nell’ansia di interrompere un flusso, di rovinarci il feed, di pubblicare qualcosa che stride con il resto, con i nostri account molto verticali, molti di noi, anche persone che stimo molto, si stanno rinchiudendo in un inusuale silenzio. Non solo e unicamente online, ma spesso anche nella vita vera. Non ne vogliono parlare, non se la sentono di parlarne. È troppo. “Non ho gli strumenti”. Nessuno ce li ha. Letteralmente nessuno.
Oggi ho fatto una battuta sugli appassionati di montagna che sulle dating apps tendono a sottolineare di essere “apolitical”. Perché la montagna e la politica non si possono mescolare? Perché non posso parlare di musica, arte, cinema, attualità, hiking, crisi di pianto e stragi di innocenti? Perché non posso mescolare due o tre lingue in una canzone o in una sceneggiatura? Il fatto che film come La Chimera, Past Lives e Perfect Days siano andati così bene al box office italiano mi fa ben sperare. È come se piano piano stessimo iniziando a fare i conti con i nostri limiti, e a capire che la vita in versione “verticale” (solo una lingua, solo una cultura, solo un argomento, solo una parte del tutto) non è abbastanza, o meglio, non è vita. È l’imposizione di uno schema binario su qualcosa di organico che è infinitamente più complesso e aperto a variazioni e contaminazioni. È la lottizzazione del nostro tempo, della nostra attenzione, e della nostra umanità.
Lo stiamo capendo noi che continuiamo a parlarci e confrontarci con il mondo, spesso attraverso questo spiraglio così piatto e colorato che odiamo, ma che ci fornisce una finestra sull’altro che prima non avevamo. Lo sta capendo mia madre che per la prima volta in 20 anni è andata al cinema di paese a guardare l’ultimo film di Wim Wenders, uno dei suoi registi preferiti, con cui mi ha letteralmente cresciuta.
Lo sta capendo un musicista affermato che ha i piedi non in due ma in mille scarpe, che ha il coraggio di saltare da un genere all’altro, da una lingua all’altra, e di ricordarci che la molteplicità è ciò che manca nel Truman Show: la possibilità di esplorare, di andarsene e anche di tornare, in un’altra parola la libertà. Quella libertà che noi abbiamo ma non sfruttiamo, e che non esercitiamo per far sì che qualcun altro possa ottenere gli stessi privilegi. No, diritti.
Non lo sta capendo un pavidissimo Fazio, che ha invitato Ghali al suo programma monetizzando il suo coraggio, e restituendogli in cambio domande banali e retoriche, e soffocandolo con quell’invocazione all’autenticità che piace così tanto a chi non è cresciuto povero o in periferia.
Otto anni fa trascorsi una primavera a New York. Uno dei ricordi più vividi che ho di quel periodo era la sensazione che mi dava camminare per la strada e sentire il nuovo album di Rihanna riprodotto da centinaia di telefoni, casse, televisioni, schermi, in qualunque quartiere. Gruppi di ragazzi che la ballavano in un piccolo ristorante di pollo fritto nell’East Village. Persone che la urlavano alla guida della propria auto a Ridgewood, nel Queens. ANTI, un capolavoro, aveva fornito per una volta alla città uno, se non diversi inni, da cantare tutti assieme, a squarciagola, nello stesso anno in cui Donald Trump avrebbe vinto le elezioni. La canzone più popolare e che sentivo in media una volta al giorno era Work.
Nel workshop di Essay and Opinion Writing che seguii per tre mesi cercai di mescolare tante delle sensazioni che la città mi dava, i miei disagi sul privilegio reale e percepito, sulla posizione che occupiamo nella società e su quella che il nostro aspetto ci permette di percepire e far percepire. Nel testo che cercai di finire senza successo, parlavo con franchezza dei momenti di pianto, di disillusione, di isolamento, di budget striminziti che mi lasciavano qualche exploit di vita sociale alternato a serie TV che mi tenevano compagnia nei momenti in cui non potevo più spendere un dollaro.
Scrivevo o cercavo di scrivere di razzismo sistemico e di segregazione e della mia difficoltà ad accettare la mia posizione di persona bianca che subaffitta uno spazio in una comunità che non è la propria, togliendo lo spazio alla working class locale, e atteggiandosi ad appartenente ad una classe creativa di cui non mi sentivo di fare veramente parte. Uno dei partecipanti al workshop, uno psichiatra tedesco, in una delle sessioni di feedback sottolineò che condividere così tante cose personali in un pezzo che tutti avrebbero potuto leggere avrebbe potuto compromettere le mie possibilità da un punto di vista professionale. Prima di partire mi ero licenziata, al mio ritorno sarei andata a supplicare il mio ex datore di lavoro di riprendermi a lavorare per la sua agenzia.
Ecco, visto che anche questa volta prima di partire ho lasciato un lavoro relativamente stabile, e che mi trovo per diverse ragioni a rivivere tante situazioni simili a quelle di 8 anni fa, mi dico: il cielo è ancora più blu. Siamo tornati indietro e stiamo andando avanti. Quando tutto sembra esattamente uguale a prima, trovo che sia un esercizio utile focalizzarsi almeno per un istante su quello che non lo è. Abbiamo ancora bisogno di inni, ma questa volta ne abbiamo scelto uno che invoca, attenzione, non la pace, ma la libertà. Non un generico “stop alle guerre” ma un invito a guardarci allo specchio e a osservare le catene luccicanti con cui ci continuiamo a imbavagliare da sol*, giorno dopo giorno.
Fin da ottobre, un numero impressionante di persone sono scese in piazza per la Palestina, si sono schierate per la fine di una mattanza, hanno trovato il tempo per approfondire la storia e la cultura di un luogo che non può essere raso al suolo in quanto Altro. Se accettiamo o chiudiamo gli occhi davanti all’annientamento di quello che per molti è un Altro collettivo, uccidiamo giorno dopo giorno anche un pezzetto di noi stessi, e ci perdiamo tutti, ma proprio tutti.